giovedì 23 giugno 2016

Un incontro

Ieri è venuto a trovarci A., un ragazzo che è stato qui per alcuni anni e che nel centro ha tre dei suoi 6 fratelli, approfittando della giornata festiva per il capodanno aymara. Era da un bel po’ che non lo vedevo e mi ha sorpreso non poco trovarmelo davanti, pensando al fatto che vive dal lato opposto della città. 
A differenza delle altre volte è accaduto qualcosa di diverso: aveva voglia di scambiare quattro chiacchere col sottoscritto, cosa insolita visto che quando arriva va subito alla ricerca dei suoi fratelli per vedere come stavano, e ho deciso di stare per po’ in sua compagnia, nonostante avessi i minuti contati visto che stavo preparando la pizza per la cena.
La prima cosa che mi colpito è stato il suo sguardo ed il suo sorriso che non sono cambiati per niente da quando se n’è andato dall’hogar circa due anni fa: è rimasto lo stesso, soltanto si è fatto più robusto! All’inizio ha rotto il ghiaccio parlando di calcio e più precisamente della magra figura della Bolivia in Coppa America, fornendomi la sua spiegazione sul motivo della debacle, e poi, forse rendendosi conto che lo stavo ascoltando con piacere ed interesse, ha cominciato a parlare di sé senza esitare a rispondere alle domande che gli facevo.
Mi dice che va a scuola alla sera e con orgoglio mi informa che è al penultimo anno di studio, i suoi voti non sono nè troppo alti nè troppo bassi ma nella media così come erano quando stava qui perché non gli piace primeggiare ed essere tra i peggiori… Mi sorride e continua a raccontarmi che le sue giornate le passa facendo i compiti e facendo da babysitter al fratellino di un anno e mezzo, che è molto vivace e non lo si può lasciare un momento da solo. So che lo fa perché la madre è gravemente malata ed il papà deve lavorare tutto il giorno per trovare i soldi per le medicine e per coprire le spese, non gli chiedo nulla su come stanno i suoi genitori perché so che potrei toccare un tasto dolente. Quel che mi colpisce dalle sue parole è il fatto che è lui a far crescere il fratello nonostante ne abbia altri due più grandi che potrebbero farlo al posto suo e ne parla senza alcuna traccia di rabbia e rancore, anzi quanto trapela dalla sua bocca è pieno di serenità.
Mi racconta che, oltre a studiare, si mette a lavare i vestiti e nei giorni di festa cucina per tutta la famiglia. L’unico momento in cui mi sembra di notare un poco di tristezza è quando ammette che non esce molto di casa e per questo non conosce il quartiere in cui vive nè la gente che vi abita: ironizza sul fatto dicendo che gli sembra strano, visto che quando era all’hogar faceva di tutto pur di salire mentre ora si è trasformato in un “uomo di casa”, come si è lui stesso definito. Dal modo in cui me lo dice intuisco che, forse, questa non è proprio una sua scelta ma non lo vedo troppo scontento di ciò, noto in lui la consapevolezza che doveva dare una mano in famiglia.
Mentre l’ascoltavo mi sono immaginato la vita di molti ragazzi italiani che è ben diversa da quella che A. mi stava raccontando: anche se migliore non saprei dire in quanti abbiano la tranquillità e la serenità del giovane che avevo davanti, che a 17 anni si preoccupa della sua famiglia facendo dei grossi sacrifici. Basta pensare che che A. viene a trovare i suoi fratelli e li viene a prendere per portarli a casa, quando questi hanno un permesso, perché il padre non può venire perché lavora e lo fa portandosi sempre dietro il suo zaino perché dopo deve andare di corsa a scuola: la cosa che più colpisce è che tutte le volte lo si vede sorridente e mai con un'espressione di tristezza!
Solo su una cosa mi son sbagliato: pensavo che quest’anno, una volta lasciato il Don Bosco, si sarebbe perso e forse lasciato alle spalle una grande opportunità, quella di studiare… Mi son dovuto ricredere: il ragazzo ce la sta mettendo tutta per finire la scuola e nel frattempo è rimasto il bravo ragazzo che era, con cui ho avuto la fortuna di condividere un pezzo di strada.
Har baje

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