Venerdì mattina è la volta buona:
liberi finalmente dai tanti impegni, Liliana mi conferma che si può
andare a Vila Warnes coi ragazzi per condividere con chi ha più
bisogno una parte dei viveri e di vestiti che ci sono stati
generosamente donati e che abbiamo ricevuto a volontà.
Mentre ci avviciniamo alla nostra meta
non posso notare come il paesaggio sia cambiato: hanno recintato
alcune zone fino a bloccare quella che una volta era la via di
accesso al villaggio ma quello che più mi fa specie è la
costruzione di una serie di case che stride con la realtà distante
poche centinaia di metri, costituita da una comunità che di giorno è
fatta perlopiù da un numero imprecisato di bambini che vengono
lasciati soli dai genitori perchè devono andare a lavorare in città.
Con la camionetta mi fermo nel punto dove mi dice Liliana: a differenza delle altre volte non ci troviamo nella piazzetta principale ma a qualche centinaio di metri di distanza, in una zona ancora più povera e dove gli aiuti non arrivano, come mi spiega la gente che ci avvicina a noi. Mi colpisce vedere qualcuno che cammina coi piedi nudi, non facendo una piega per il freddo della mattinata, ma mi sorprende ancora di più l'imbattermi nella parete di una casa fatta di lamiere e di tavole di legno: non è la prima volta che vedo un'abitazione così, anzi ne ho potuto osservare altre in condizioni ben peggiori, ma non riesco proprio ad abituarmi a questa visione, anzi mi provoca sempre uno scossone interiore che mi spinge ad interrogarmi su come al giorno d'oggi sia ancora possibile che si possa vivere in questo modo. Non riesco a capacitarmi su come abbiano permesso di realizzare delle villette a schiera di un certo livello mentre la gente del posto vive ancora in catapecchie o in case a cui manca l'intonaco perchè non se lo possono permettere: è un contrasto che letteralmente è un pugno sullo stomaco ben assestato.
Con la camionetta mi fermo nel punto dove mi dice Liliana: a differenza delle altre volte non ci troviamo nella piazzetta principale ma a qualche centinaio di metri di distanza, in una zona ancora più povera e dove gli aiuti non arrivano, come mi spiega la gente che ci avvicina a noi. Mi colpisce vedere qualcuno che cammina coi piedi nudi, non facendo una piega per il freddo della mattinata, ma mi sorprende ancora di più l'imbattermi nella parete di una casa fatta di lamiere e di tavole di legno: non è la prima volta che vedo un'abitazione così, anzi ne ho potuto osservare altre in condizioni ben peggiori, ma non riesco proprio ad abituarmi a questa visione, anzi mi provoca sempre uno scossone interiore che mi spinge ad interrogarmi su come al giorno d'oggi sia ancora possibile che si possa vivere in questo modo. Non riesco a capacitarmi su come abbiano permesso di realizzare delle villette a schiera di un certo livello mentre la gente del posto vive ancora in catapecchie o in case a cui manca l'intonaco perchè non se lo possono permettere: è un contrasto che letteralmente è un pugno sullo stomaco ben assestato.
A poco a poco arriva la gente attorno
alla camionetta: non è molta visto che in tanti sono al lavoro ed in
alcune abitazioni ci sono soltanto i bambini. Decidiamo di procedere
lo stesso ed incarico i ragazzi di farlo, voglio farli partecipi di
questo perchè sono stati loro a preparare i sacchetti di cacao e
farina da distribuire e per farli provare la gioia di dare sapendo di
non ricevere niente in cambio: li vedo contenti mentre distribuiscono
quello che c'è nei sacchi, nonostante qualche impaccio iniziale.
Nella via di ritorno facciamo una tappa
presso la seconda opera che il fondatore del centro, Padre Minghetti, ha
fatto nella zona: un asilo nido, gestito ora da alcune suore
sudcoreane. E' una bella sensazione essere accolti con un sorriso e
vedere che tutto lì vada nel verso giusto, dopo le vicissitudini
iniziali, e chiediamo se avessero bisogno di qualcosa visto che
abbiamo avuto la fortuna di aver ricevuto una grossa donazione e
vogliamo condividere, anche per evitare che le cose deperiscono: ci
viene chiesto se possiamo contribuire con un sacco di zucchero.
Facciamo qualche metro con la
camionetta e Liliana propone di andare a fare una visita all'hogar
ortodosso che è poco distante da noi e si trova sulla via che stiamo
percorrendo: ne abbiamo sentito sempre parlare ma non siamo mai
andati a vederlo e poi, conoscendo bene com'è la realtà dei centri
di accoglienza, questa potrebbe essere una buona occasione per dargli
una mano. Entro per il cancello d'entrata, parcheggio dopo una decina
di metri e mentre io e Liliana scendiamo, diciamo ai ragazzi che ci
stanno accompagnando di restare in macchina perchè non abbiamo
assolutamente idea di cosa ci aspettasse. Ci guardiamo intorno, c'è
una cappellina ma non c'è anima viva: chiediamo più volte se ci
fosse qualcuno ma non riceviamo risposta. Guardo la struttura che, nelle varie occasioni che passavo per di lì, avevo associato alla casa di accoglienza e solo ora mi accorgo che non può esserlo, date le
dimensioni e l'aspetto trascurato. Facciamo qualche passo in avanti e
seguito quello che pare sia un piccolo sentiero: ci viene incontro
una mucca e l'erba è alta, si respira un'atmosfera strana ma alzando
gli occhi notiamo che a poche decine di metri da noi si innalza un
edificio di due piani e che nel terrazzo riporta un cartello con la
dicitura dell'hogar: rimango sorpreso perchè dalla strada non si
vedeva affatto! Ci avviciniamo e troviamo un uomo ed una donna che
erano occupati in faccende di casa, in compagnia di quelli che penso
siano i loro figli: Liliana chiede di parlare con il responsabile e
ci rispondono di andare al primo piano, in fondo al corridoio.
Saliamo le scale e ci guardiamo attorno con aria perplessa, non
abbiamo proprio idea di dove stiamo andando: camminiamo per quasi tutta la
terrazza fino ad arrivare ad un cancello. Domandiamo se c'è qualcuno
e compare una signora con un piccolo in braccio, ci saluta e ci fa
accomodare in quello che sembra un piccolo appartamento. Non faccio
ora a metter un piede dentro che vengo accolto da un grande sorriso
di un bambino che avrà al massimo 2 anni e mi abbraccia: non riesco
a trattenermi, d'istinto lo prendo in braccio e non posso non notare
di quanto sia contento di questo. Scopriamo dalla parole della
signora, che è una delle collaboratrici del centro, che ci troviamo
nella parte dell'edificio adibita ad hogar e che qui ospitano bambini
fino ai 5 anni, età massima prevista per l'adozione, anche se noto
che nessuno degli 8 ospiti attualmente presenti arrivi a quell'età,
i più piccoli hanno solo qualche mese di vita e questo mi fa
rabbrividire non poco: come si può abbandonare un neonato? Capiamo
che questa struttura non riceve alcun tipo di aiuto dall'autorità
pubblica, non hanno nemmeno un veicolo col quale muoversi per cui
devono chiedere un passaggio a gente di buon cuore per fare delle
commissioni in centro e gli mancano delle culle per i più piccoli:
al sentire questo Liliana ha un sussulto e mi chiede “Marco, ti
ricordi che al centro ne abbiamo due che non utilizziamo? Sai dove
sono state messe?”. Le rispondo che sì, so di averle smontate e
messe da parte per poterle poi tirare fuori al momento opportuno. Mi
rendo subito conto dell'idea che aveva in mente: qui ne hanno urgente
bisogno per cui non esito un istante nell'impegnarmi a fargliele
avere nel pomeriggio, assieme a un po' di pasta, di farina e di
zucchero.
Per tutto il tempo che siamo rimasti
lì il mio piccolo amico che mi aveva accolto non mi ha mollato un
secondo e voleva essere preso in braccio ancora una volta: prima di
andarmene l'ho sollevato più volte in alto, fino a dove potevo, e
lui era a ridere di gusto, felice come solo un bambino di quell'età
può essere. Mi ha regalato una grande gioia, ha riempito il mio
cuore di allegria e mi ha fatto pensare a quando, qualche anno fa in
un centro dei salesiani a Santa Cruz, una bambina mi ha scelto fra
gente che conosceva già e le ragazze che mi accompagnavano per
essere presa in braccio e regalare un disegno: quell'episodio lo
ricordo con piacere e credo sia stato proprio in quel momento che sia
scattata la scintilla che mi ha portato ad essere qui in Bolivia ad
aiutare questi fanciulli. Sorrido perchè i due fatti si assomigliano
troppo per essere soltanto una coincidenza e nel farlo non posso fare
a meno di ringraziare per la fortuna di averli potuti vivere e per una mattinata che mi ha regalato forti emozioni.
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