L'anno passato, proprio in questi
giorni, raccontavo dell'esperienza di Liliana e di suo marito Luis
che con un gruppo di amici avevano dato vita a “Mision Vida” allo
scopo di aiutare chi più ne ha bisogno e di come avevo dato loro un
piccolo contributo. I loro racconti e quanto avevo potuto vedere mi
avevano talmente preso che un poco li invidiavo e fatto
venire la voglia di vivere questa loro esperienza per cui quest'anno
ho deciso di prenderne parte.
Sono stati tre giorni intensi e
stupendi, senza contare tutto quello che li ha preceduti: di intoppi
ce ne sono stati ma devo dire che ne è valsa davvero la pena! E dire
che all'inizio sembrava girare un po' tutto storto: dalle defezioni
di qualcuno che per lavoro non poteva partire subito con noi salvo
poi raggiungerci successivamente alla pioggia che si è fatta viva
dopo quasi due mesi di assenza, al forfait di medici, al ritardo del
camion nel quale dovevamo caricare quanto destinato alle popolazioni
che saremmo andati ad aiutare fino al fatto che non c'erano letti
sufficienti per riposare e non c'era l'acqua nel bagno... Tutte cose
che però non hanno sconfortato né il sottoscritto né i miei
compagni di questa avventura anzi posso dire che ci hanno dato
ancora più forza e convinzione!
Quest'anno il gruppo di Mision Vida si
era proposto di recarsi nuovamente tra le comunità presenti nei
dintorni di Gutierrez, in paese a circa 220 chilometri da Santa Cruz,
per offrire assistenza medica e dentistica e portare viveri, vestiti
ed altro che sicuramente sarebbe stato utile: l'idea ha subito
calamitato la mia attenzione, memore di quanto avevo potuto vedere
coi miei stessi occhi l'estate scorsa e che qualche volta riaffiorava
nei miei pensieri. Avevo voglia di poter conoscere meglio quella
realtà, quasi dimenticata dalle autorità e raggiungibile solo dopo
qualche decina di chilometri percorsi su strade fatte di pura terra
ed in cui si mangiava la polvere, vista la forte siccità che ha
caratterizzato quest'inverno. Desideravo mettermi in gioco e sapevo
che questa era la mia occasione, c'era qualcosa dentro di me che mi
spingeva a buttarmi in questa esperienza, era Dio a dirmi che era il
momento giusto per farla... Ma se da un lato la cosa mi elettrizzava,
dall'altra mi creava più di qualche dubbio o timore: come avrei
attaccato bottone con la gente del posto, visto che la maggioranza
parlava solo in guaranì, che è il dialetto della zona? Quale
sarebbe stata la mia reazione quando mi sarei imbattuto in certe
situazioni in cui la dura realtà si sarebbe presentata così com'è
senza alcuna pillola che fosse in grado di addolcirla? Come mi sarei
relazionato con gli altri compagni di missione, tutti boliviani e che
conoscevo soltanto di vista o non li avevo mai visti prima? Sarei
stato in grado di portare avanti quanto mi fosse richiesto? I giorni
antecedenti la partenza sentivo l'ansia crescere, così come il
nervosismo sebbene cercassi di non crearmi aspettative su quanto
avevo la fortuna di poter vivere e mi ripetessi continuamente le
parole che una persona a me molto cara una volta mi ha detto: “Se
Dio ti chiede di fare una cosa, sa che la puoi realizzare”.
Nelle riunioni precedenti la partenza
mi viene chiesto di occuparmi di distribuire le medicine alla
popolazione sulla base di quanto prescritto dai medici e dai
dentisti: la cosa non mi assilla più di tanto visto che anche in hogar me ne
occupo e ciò mi ha aiutato a capire quale sia il farmaco migliore da
dare in certe situazioni. Ad infondermi più fiducia è il fatto che
verrò affiancato da una ragazza del centro che nel fine settimana mi
aiuta nel mio servizio di infermeria per cui avrò la fortuna di
poter lavorare con chi già conosco ed ho avuto già modo di
collaborare. Mi viene ripetuto più volte che la mia presenza sul
campo non sarà limitata a questo e che, come tutti, dovrò cercare
di instaurare un clima di amicizia con la popolazione e di dare il
mio contributo dove ce ne sarà bisogno: la cosa non mi sorprende,
non ne so il motivo ma la sola idea mi motiva ancora di più.
Tutto ciò mi stava caricando, anche se
le preoccupazioni non ne volevano sapere di svanire, ma il sapere che
anche tre fanciulle dell'hogar avrebbero preso parte a questa
missione mi motiva ancora di più: ero sicuro che questi tre giorni
sarebbero stati importanti per loro e le avrebbero segnate, era un
onore essere al loro fianco in quest'esperienza perchè, nel caso ne
avessero avuto bisogno, sarei stato lì pronto a tenderle la mano.
Passata la serata del venerdì a
caricare il camion, il sabato mattina si parte: ci si sveglia alle 3
perchè ci vogliono minimo 5 ore per arrivare alla prima comunità
che ci aspetta... Come da pronostico piove e comincia a far freddo
ma, come per magia, quando giungiamo a destinazione compare un timido
sole. Allo scendere dal pulmino rimango quasi sorpreso dal numero di
gente che ci stava aspettando: li vedo infreddoliti, mi colpiscono i
loro volti, i loro sguardi e soprattutto un bambino che ha i piedi
scalzi e sporchi dalla tanta polvere che hanno dovuto calpestare.
Tempo di sistemare la zona dove
sarebbero stati offerti i nostri servizi e di scaricare il camion e
ci presentiamo: all'inizio sono un po' riluttante a farlo, cerco
inutilmente di sfilarmi ma poi quando parlo, con tutti quegli occhi
che mi fissano, sento fluire in me una grande energia e mi riempio di
un grande entusiasmo. L'inizio però non è dei migliori: i farmaci
non sono sistemati in modo che possa identificarli subito per cui la
mia azione è rallentata, disturbata anche dal stupore che provo ne
vedere un immensa fila di gente che aspetta il suo turno di ricevere
le cure mediche e poi i viveri ed i vestiti. Anche se non ci sono
dottori le due infermiere del gruppo fanno un ottimo lavoro, così
come i dentisti, e devo ringraziarle di cuore perchè mi hanno
aiutato ad uscire dall'impaccio iniziale e quando potevano mi
riempivano di suggerimenti. Ho provato orgoglio e sorpresa nel notare
la cura e l'attenzione che una delle fanciulle del centro stava
mettendo nello svolgere il compito che le è stato assegnato e che è
molto delicato: sterilizzare gli strumenti odontoiatrici. Lo fa in un
modo impeccabile per essere la prima volta: da lei non me lo sarei
proprio immaginato!
Il tempo passa velocemente, nemmeno me
ne accorgo, e solo dopo aver finito scopro che erano passate
all'incirca 6 ore e mi accorgo di avere fame quando mi avvisano che ci verrà offerto da
mangiare! Non mi aspettavo nulla in cambio
ed invece ci viene offerto un capretto e del mais come
ringraziamento: una delizia! Non importa se ci ritroviamo a saziarci
senza posate né piatti: quanto ci hanno dato è un gesto di amore
nei nostri confronti perchè ci hanno donato del loro per ricambiare
per quel poco che abbiamo potuto fare. Subito dopo un'altra famiglia
ci invita a condividere il pranzo con loro: mangiamo tutti insieme in
una comunione fraterna dove tutti eravamo uguali, dove nessuno si
sentiva superiore all'altro anzi eravamo noi a dover ringraziare di
così tanta generosità... Non riesco a definirla in altro modo
perchè quando ti trovi in mezzo a delle abitazioni fatiscenti, fatte
di tavole di legno con tetti in lamiera o di tendoni, e non puoi far
finta di non vedere con i tuoi stessi occhi che le pentole usate per
cucinare sono nere, ammaccate, sporche fino all'inverosimile, i letti
coperti da una miriade di vestiti stropicciati ed oggetti, la gente
con indosso maglie sudice, rattoppate e con scarpe di fortuna ai
piedi capisci che ti stanno offrendo il massimo che è nelle
loro possibilità. Mi ricorderò a lungo quella carne servita su una
bacinella non proprio pulita e mangiata ancora una volta con le sole
mani perchè non c'erano piatti e forchette a sufficienza! Ho
avvertito un po' a disagio davanti a questo banchetto: hanno
condiviso con me quanto potevano, senza dubitare nemmeno per un
istante... Sarei stato capace di fare altrettanto?
Mi sono vergognato
quando ho visitato la dimora di una delle più anziane: non riuscivo
a capacitarmi di come una persona potesse vivere in quelle
condizioni, com'è possibile che nel terzo millennio siano ancora
possibili queste situazioni? A distogliermi da questi pensieri ci
pensano i bambini della comunità che mi scrutano dalla testa ai
piedi con i loro occhi scuri e, quando gli accenno un saluto, mi regalano alcuni dei sorrisi più belli
che ricordi.
La sera arriviamo stanchi ma
soddisfatti, c'è qualcosa da migliorare e ne discutiamo ma sappiamo
con certezza che il giorno seguente sarà sicuramente migliore... La
nostra fiducia è talmente forte che non viene intaccata nemmeno
quando scopriamo che per il bagno bisogna andare ad attingere acqua
da un pozzo poco distante e che per il nostro riposo c'è una stanza
con tre letti: poco male, le donne del gruppo, che ne rappresentano i
due terzi, dormiranno lì mentre noi uomini passeremo la notte sul
pavimento della vecchia chiesa di Gutierrez. Nel vedermi attorniato
da statue di santi interpreto questo come un segnale del Cielo: mi fa
sentire che non sono solo e che c'è sempre Lui ad accompagnarmi
anche quando la strada per fare il bene non è facile ed è ricca di
ostacoli ma alla fine del cammino scoprirò che ne è valsa la
pena.... In questo caso i miei intralci sono un materasso di paglia
molto sottile e il russare di qualche mio compagno ma ci vuole ben
altro che mi spinga a darmi per vinto.
La mattina dopo ci rechiamo a
Pirirenda, una nuova comunità in cui le missioni precedenti non
erano arrivate: anche qui c'è molta gente che ci aspetta. La
coinvolgiamo in qualche dinamica per rompere il ghiaccio, per dirgli
che non siamo lì sono per un aiuto concreto ma anche per conoscerli
e la risposta è molto positiva. Quando cominciamo il servizio
subito mi accorgo che le cose sono migliorate e decido di buttarmi:
per rallegrare l'atmosfera e tirare su di morale i miei compagni,
soprattutto chi deve estrarre un dente o ricettare, cerco di fare un
po' di animazione, inventandomi coreografie, cantando e non mi
importava nulla se nessuno mi seguiva, quello che più contava era
rallegrare gli animi di tutti... Posso dire che ho dato tutto quello
che avevo anche quando ci siamo recati nell'altro posto dove era
programmato un nostro intervento e non me ne pento: ne ero felice e
più mi sentivo così più sentivo crescere in me le energie. Cercavo
di accogliere chi veniva da me con la ricetta con un sorriso e
coordinavo chi era al mio fianco, dandogli una pacca sulla spalla se
sbagliava e dicendogli che stava andando tutto bene, andavo dai dentisti e
dagli infermieri a sussurargli qualche bella parola per non farsi
lasciare vincere dalla fatica: sembravo una pallottola impazziva che
andava, quando poteva, da tutte le parti con l'obiettivo di
diffondere il mio entusiasmo. Non tutto andava però come volevo: ho
cercato di avvicinarmi ad un bambino ma ho scoperto che non mi
capiva, parlava solo in guarani per cui ci siamo scambiati soltanto
un paio di sorrisi... Meglio così, non tutto può essere perfetto e
l'episodio mi fa capire che c'è sempre da migliorare!
Il lunedì credo sia stata la giornata più
faticosa, sarà per la stanchezza accumulata in precedenza che per la
voglia di tornare verso casa. Andiamo a Kapirenda con i mezzi che
questa comunità ha messo a disposizione: una manna del cielo visto
che passiamo un'ora e mezza su strade sterrate che in alcuni tratti
definirle dissestate è un eufemismo e ringraziamo perchè non piove
altrimenti non saremmo riusciti ad arrivare. Lì siamo attorniati da arbusti secchi, qualche collina e case fatte perlopiù da fango e
paglia: c'è la sensazione che qui la popolazione ha un bisogno
maggiore rispetto a dove siamo già stati e rimaniamo un poco delusi
dal fatto che non siamo in molti ad aspettarci.... Cominciamo con
l'animazione ed è difficile coinvolgere chi ci è vicino, quasi
scappa al nostro andare verso di loro, appare intimorita: veniamo a
sapere che quasi nessuno passa per queste parti, è una località
dimenticata troppe volte anche dalle autorità... Parole che pesano
come macigni, come è possibile che un governo che si vanta di essere
per i poveri non faccia niente in merito? Non c'è tempo però per
le critiche, è l'ora di offrire un'assistenza dentistica e
medica a quanti sono presenti che paiono moltiplicarsi con lo
scorrere dei minuti: quando esco dal locale dove distribuisco le
medicine vedo soltanto una fila interminabile fatta di donne,
bambini, anziani e uomini che aspettano pazientemente il loro turno.
Ne osservo i volti, alcuni arrossati per il freddo, altri induriti
dalle fatiche quotidiane e dal passare del tempo... Si può leggere la
tristezza e la rassegnazione nei loro occhi ma vi si può intravedere
anche una piccola fiammella di speranza che si è accesa al nostro
arrivo: mi ricordano in ciò che credo, che sono dei fratelli
sfortunati che rappresentano il vero volto di Gesù che mi invita, mi
supplica di fare qualcosa per loro.
Non riesco ad essere euforico come in
precedenza, la stanchezza si fa sentire ma cerco sempre di sorridere
e di augurare una buona giornata a chi mi sta davanti anche se mi
sento con le pile scariche. Benedico il fatto che facciamo una
piccola pausa per rifocillarci con quanto generosamente hanno
preparato per noi e riparto carico facendo battute e scambiando
sorrisi con chiunque mi tirasse a tiro, mettendomi ancora una volta
in gioco passando tra chi era in fila ad aspettare il proprio turno
per distribuire degli antiparassitari, ignorando quell'odore
pregnante di sudore e di sporco presente nell'aria: d'altronde anch'io
non mi lavavo da tre giorni, di cosa potevo lamentarmi?
Le medicine cominciamo a scarseggiare
ed avviso le infermiere: è davvero avvilente ritrovarsi a dover dare
soltanto una piccola parte di quanto ricettato e non riesco quasi a
guardare in faccia il mio interlocutore per dirglielo ma lui,
rassegnato, capisce e non fa una piega perchè almeno sa qual'è il
malessere di cui è affetto. Quando finiamo con l'ultimo paziente
quasi non ci credo ma devo rapidamente tornare alla realtà quando mi
informano che uno dei mezzi che ci aveva portato fin qui non c'è per
cui tutti dobbiamo salire sulla camionetta con le poche cose
avanzate: si sta facendo scuro, il freddo si fa più intenso e non è
una passeggiata stare nel vano scoperto del pick up ma è l'allegria
che ho nel cuore, così come quella dei miei compagni, a far sopportare quest'ultima difficoltà.
Nel tornare verso casa ripenso a questi
giorni e mi rendo conto come mi senta bene, nonostante le fatiche:
sono felice, forse come non succedeva da tanto tempo, e sono
soddisfatto che tutto sia filato liscio, di come le difficoltà hanno
tirato fuori il meglio da ciascuno dei componenti della missione
perchè il nostro scopo era stare al servizio di chi aveva più
bisogno, di condividere qualcosa con loro. Abbiamo lavorato da squadra,
ci siamo aiutati a vicenda quando ce n'era il bisogno, soprattutto
siamo stati il braccio di tante persone che desideravano fare
qualcosa per questa gente e non ne aveva la possibilità: sono
davvero contento di aver vissuto quest'esperienza e ringrazio davvero
di cuore Liliana, Luis e tutti gli amici di Mision Vida per avermi
dato la possibilità di condividere con loro quest'avventura.
Har baje
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